Avevo solo dodici anni quando Silvio Berlusconi è "sceso in campo" entrando in politica. Già, l'odioso "scendere in campo" da lui coniato che è ormai di uso comune, come sono diventati comuni e accettati i suoi usi e vizi. Lui c'è da quando ho iniziato ad avere un minimo di coscienza politica, una presenza ingombrante e odiosa. Ancora ricordo, anche se ero piccolo, il bombardamento di pubblicità durante la campagna elettorale del 1994. Io già da allora non lo sopportavo mentre vedevo gli anziani di famiglia sempre più ammaliati da quell'uomo sempre troppo sorridente. Un sorriso sempre uguale negli anni, un odioso ghigno. E così le scuole, l'università, il lavoro, e lui (escludendo alcune parentesi neanche troppo fortunate) sempre lì. Ora ho ventinove anni e mi sento derubato di un pezzo di futuro, a livello economico e sociale. Questi ultimi giorni per me hanno una valenza storica, se non altro personale. L'attesa per la fine del berlusconismo è un qualcosa che mi coinvolge e mi appassiona, in un impeto di irrazionalità che non si riduce pensando che già dal giorno successivo con grandi sacrifici sarò chiamato, insieme a tutti gli italiani, a riconquistare quel pezzo di futuro che ci è stato preso indebitamente.
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